Cartella n. 10: FINE VITA E PENSIERO EBRAICO (a cura di di Riccardo Di Segni) - Numero Speciale Uno sguardo giuridico e bioetico sul fine vita

L'ebraismo fonda la sua cultura sulla Bibbia ebraica (l'antico testamento) e sulla tradizione dell'insegnamento dei rabbini, i maestri interpreti della scrittura. Nell'ebraismo il rapporto con l'insegnamento biblico e con quello rabbinico, che ne sviluppa in una interrotta continuità le premesse, è radicale e fondamentale. Tutti i problemi etici, e in particolare quelli bioetici, vengono affrontati sistematicamente a confronto con la tradizione precedente, cui viene riconosciuta un'origine sacra e un'autorità indiscussa.

Per quanto riguarda i problemi etici nuovi, che si pongono ogni giorno parallelamente allo sviluppo delle tecnologie, la loro soluzione spetta ai rabbini; ma nell'ebraismo manca ormai da molti secoli un'autorità centrale, che sia in grado di imporre a tutti una soluzione unitaria; per cui può accadere che su determinate questioni particolari e nuove vengano espresse decisioni e opinioni differenti, ciascuna delle quali si giustifica per l'autorità e la competenza di chi l'ha formulata e per il rigore del ragionamento giuridico che la sostiene.

Dopo queste premesse, ecco alcune indicazioni di massima sui problemi in discussione. Per quanto riguarda l'eutanasia e la bioetica degli stadi terminali, non esistono indicazioni chiare e specifiche su questi punti nella bibbia, ma da questa vengono comunque tratte le basi per il ragionamento successivo della tradizione.

Chi si trovi davanti a un malato estremamente sofferente, sia per condizione professionale che per qualsiasi altro motivo, può essere indotto a reagire all’intenso stimolo emotivo ed umanitario con risposte di tipo differente: dal rifiuto delle responsabilità ad un forte impegno personale che, a sua volta, può realizzarsi in modi opposti, dal desiderio di affrettare la morte del malato per porre fine alle sue sofferenze (eutanasia), al tentativo esasperato di curarlo ad ogni costo (accanimento terapeutico).

Non si tratta, evidentemente, di decisioni banali; non solo perché la cosa non riguarda unicamente chi agisce, come l’operatore sanitario, o l’amico o il parente, ma pure un’altra persona, quella del sofferente, che spesso non è neppure cosciente; ma anche perché i termini del problema sono strettamente correlati a quello più generale del diritto di decidere e intervenire sulla vita di altri.

In una società civile questo diritto non può restare indeterminato, lasciando le decisioni ai singoli, ma va garantito e regolato con precisione, essendo una delle basi essenziali della convivenza.

In una cultura che ha radici religiose all’esigenza della stabilità sociale si unisce il peso di una tradizione di fede e di etica che sostiene a monte dei principi generali sul valore della vita umana.

Nella tradizione ebraica come è noto le scelte della halakhà (1) non sono pure astrazioni religiose, ma corrispondono anche alle esigenze della stabilità sociale. In merito al problema che stiamo affrontando esistono degli orientamenti generali precisi da molti secoli; va tuttavia aggiunto che i progressi recenti della medicina hanno posto una serie molto complicata di problemi particolari, sui quali la discussione è viva e le risposte spesso discordanti.

Non accelerare la morte

I principi essenziali che regolano la materia sono essenzialmente due.

In primo luogo è proibito ogni atto che possa accelerare la morte di un agonizzante: gli esempi citati nei testi tradizionali si riferiscono anche a mezzi indiretti di tipo magico, o a semplici azioni come movimenti del corpo, che in qualche modo turbano un equilibrio precario. Il concetto che ispira queste regole è che a nessuno è concesso il diritto di procurare la morte anche se si tratta di un processo irreversibile e imminente, anche se per i medici non c’è più alcuna speranza e anche se è il malato stesso a richiederlo.

Chi procura direttamente la morte ad un agonizzante è in pratica come se avesse compiuto un omicidio.

Ovviamente la regola riguarda in primo luogo il medico, al quale è anche proibito suggerire al malato i modi per risolvere da solo il problema. Per dirla con le parole del Rav Jakobovits,(2) nel conflitto di interessi tra la tutela della santità della vita e l’esigenza legittima di liberare dal dolore, quest’ultima non può avere la prevalenza sulla prima. “Se si diminuisce il valore della vita di un uomo perché questi sta per morire, la vita dell’uomo in generale perde il suo valore assoluto e diventa relativa” (Ha-Refuà weha-Jahadùt, p. 152, nota 3).

In questo ambito rientra anche la propria morte, cioè il suicidio, anche se sono in molti a considerare con molta minore severità il suicidio messo in atto per risparmiarsi delle sofferenze (anche perché un uomo che soffre è sempre meno responsabile delle sue azioni: en adàm nitpàs ‘al tza’arò nota 4).

Rimuovere gli impedimenti artificiali alla morte

Un secondo principio, che limita l’ambito del primo, stabilendo una sottile, ma importante differenza, è che è permesso rimuovere le cause che indirettamente impediscono la morte di un agonizzante; l’esempio classico è quello di un suono esterno ripetuto, come i colpi di qualcuno che spacca la legna, che, se impediscono il trapasso, possono essere fermati. Parallelamente non vanno messe in atto le misure che servono solo a prolungare le sofferenze del malato (anche perché nell’ebraismo la medicina è permessa nella misura in cui cura e guarisce): gli esempi classici sono il far rumore o piangere in presenza del malato o mettergli del sale sulla lingua.

Da questi esempi del medioevale Sefer Chasidim (5) alle sofisticate attrezzature della medicina moderna passa molto tempo, e così la casistica si è notevolmente articolata recentemente, cercando di verificare ogni volta la complicata differenza che può esistere tra la rimozione di ciò che impedisce e l’applicazione di ciò che affretta.

Un esempio è nel caso di un respiratore automatico applicato a un moribondo: l’orientamento prevalente è che “se è chiaro che il respiro e il battito cardiaco sono fermi è permesso staccare l’apparecchio ed è proibito riapplicarlo”; un suggerimento pratico è quello di regolare l’apparecchio con un interruttore che lo ferma periodicamente, e di verificare la situazione durante le fermate: se il malato è vivo, si riavvia l’apparecchio, altrimenti lo si stacca definitivamente (Hilkhòt Rofeìm Rufuà, p. 203-4 nota 6).

Analogamente un paziente con attività cerebrale irreversibilmente danneggiata, non deve essere sottoposto a cure (come ossigeno o infusioni) che hanno solo il fine di creare una situazione artificiosa di rinvio del decesso; se le cure sono in corso, non vanno però interrotte; e infine se la bombola si vuota o l’infusione finisce, non si è tenuti a metterne di nuove.

Un altro problema è quello dell’impiego di farmaci antidolorifici, che sono permessi anche se possono affrettare la morte, purché non siano dati proprio per questo scopo.

Un ultimo esempio, proprio di un mondo religioso che crede alla forza della preghiera, è il problema se sia permesso pregare per la morte di un paziente, affinché questi possa finire di soffrire; la questione è controversa, e in recenti orientamenti si proibisce comunque ai parenti questo tipo di preghiera, che invece è consentita al malato stesso, mentre a terzi può essere consentita solo a particolari condizioni, come la genericità dell’invocazione e la verifica inutilità dei mezzi messi a disposizione dalla medicina.

Concludendo l'atteggiamento che le autorità rabbiniche, e più in generale il pensiero ebraico, hanno su problematiche di bioetica può così riassumersi: una grande attenzione agli sviluppi tecnici e ai loro potenziali benefici per l' uomo, insieme a una prudente vigilanza e a una incessante e talora lacerante riflessione, per la tutela dei principi etici su cui si fonda la tradizione dell'ebraismo e la convivenza civile dell' umanità.

Riccardo Di Segni - medico e rabbino capo della Comunità ebraica di Roma

Note
(1)    Halakhah è la tradizione normativa dell’Ebraismo. Il nome Halakhaha deriva da halakh che significa “camminare” o “andare”. La radice potrebbe essere il semitico aqqa che significa “essere vero, essere adatto”. Ogni decisione halakhica decisa dai Rabbini di ogni epoca venne impartita a Mosé sul Monte Sinai e mantenuta attraverso la Rivelazione continua della Torah e grazie alla saggezza riconosciuta agli stessi: per questo Halakhot applicabili in situazioni moderne non presenti alla nascita del popolo di Israele sono riconducibili alla Torah scritta attraverso la Torah orale. La Halakhah non è quindi un testo singolo ma un nome per definire il complesso di norme codificate e deriva dalla codificazione delle regole del Talmud.le decisioni halalhiche determinano la pratica normativa e nel Talmud se c’era una disputa le decisioni seguivano l’opinione della maggioranza dei rabbini.

(2)    Rav Jacobovits è stato rabbino e teologo britannico Rabbino capo della Gran Bretagna fino al 1991, pioniere dello studio della bioetica alla luce del pensiero ebraico.

(3)    Ha Refua veha-Jahadut: La medicina e il Giudaismo pag. 152

(4)    en adàm nitpàs ‘al tza’arò non si giudica un uomo per il suo dolore

(5)    Sefer Chasiddim il Libro dei PII di Judah benSamuel 1150

(6)    Hilkhòt Rofeìm Rufuà regole della cura e della medicina pag.203